Tre ragioni per lasciare un brutto lavoro
Vi siete mai sentiti, almeno una volta nella vita, stanchi, terribilmente frustrati, stressati e delusi dal vostro lavoro al punto di avere voglia di mandare tutto per aria lasciando il vostro impiego senza rimpianti? Se la risposta è si, allora questo è il post che fa per voi. Vi raccontiamo infatti, tramite le sue stesse parole, la storia di Sabrina, una donna che ha fatto la scelta più giusta (e coraggiosa) per il suo equilibrio esistenziale.
L’antefatto
“Tutti quanti, almeno una volta nella vita, ci siamo trovati di fronte a una presunta grande occasione alla quale, ci veniva detto, non dobbiamo assolutamente rinunciare; pena il rimpianto a vita. Nel mio caso la grande occasione si è presentata sotto le spoglie di un lavoro che io consideravo un eccezionale avanzamento nella mia carriera. La tentazione era lì alle porte, così come lo era il denaro. Ho accettato il lavoro ma si è trattato di una decisione che non avrei mai dovuto prendere. Almeno per ho imparato che ci sono molte buone ragioni che possono indurti a lasciare un lavoro. In questa occasione però vorrei indicarvene tre in particolare. Prima però vi racconto l’antefatto. Mi ci è voluto molto tempo per rientrare nel mondo del lavoro dal momento che quando ho deciso di farlo ero una mamma casalinga da ormai molto tempo. Era per ormai chiaro che dovevo cominciare a guadagnare qualcosa per aiutare la mia famiglia: per quanto infatti mio marito lavorasse duramente, le spese erano troppe perché le potesse gestire tutte da solo.
Dopo un paio di lavoretti, mi fu offerta una posizione in un’organizzazione no-profit per la quale avevo lavorato qualche anno prima. Così colsi al volo l’occasione di lavorare ancora per loro e cominciai nel giro di un paio di giorni. Per un po’ fui soddisfatta del mio lavoro: lo conoscevo bene ed era anche molto divertente. Lavoravo per un centro locale di risorse per la maternità e dal momento che i trattava di una causa che sentivo molto vicina al mio cuore, andavo a lavorare con gioia ogni giorno. Nello staff erano stati apportati alcuni cambiamenti rispetto al passato ma tutti quanti in positivo. Conobbi un nuovo collega, che in verità sarebbe stato presto il nuovo direttore, e sembrò per un po’ di tempo che il centro si stesse avviando verso una felice transizione. Non molto tempo dopo che il nuovo direttore si fu insediato, ricevetti un’offerta da un altro mio vecchio datore di lavoro. Si trattava di una psichiatra, la quale mi invitò ad andare nel suo studio per discutere con lei di una nuova mansione da svolgere nel suo ufficio. Guardandomi indietro, mi rendo conto solo ora che non mi era mai piaciuto lavorare per lei. La prima volta che lo feci, rimasi per un mese appena perché dovetti andarmene per stare a casa ancora una volta. All’epoca mi ero colpevolizzata per essermene andata dal momento che mio figlio, che era molto piccolo, aveva bisogno di me e stava soffrendo da quando mi ero rimessa a lavorare. In ogni caso ricordo di essere stata contenta all’idea di tornare ancora una volta a stare a casa”.
Il meeting
“Nella mia testa era scattato più di un campanello d’allarme ma all’idea di guadagnare più denaro in fretta, li misi a tacere tutti quanti senza troppa difficoltà. Il mio meeting con la dottoressa andò molto bene: lei fu molto piacevole dall’inizio alla fine. Mi promise un salario più elevato di quello che mi stavano dando al centro e disse anche che mi avrebbe dato un aumento dopo appena trenta giorni. Certo la posizione che mi offriva non sarebbe stata priva di difficoltà: avrei dovuto supervisionare un ufficio composto da altri quattro o cinque membri. Prima di me queste persone non avevano avuto nessun supervisore, eccettuato ovviamente il direttore dello studio, quindi sapevo esattamente cosa mi aspettava. In ogni caso acconsentii e diedi le mie dimissioni dal centro. Ero entusiasta, dal momento che mi sembrava si trattasse di una grande opportunità per me: potevo ancora fare volontariato al centro, e sarei stata davvero d’aiuto per la mia famiglia”.
Tutto quanto precipita
“Il mio periodo di formazione durò molto a lungo dal momento che mi toccò imparare il lavoro di tutti al pari del mio. Dopo circa due mesi la dottoressa licenziò una delle ragazze che lavoravano sotto la mia supervisione. Era una contabile e senza di lei non c’era nessuno a occuparsi di fatture e conti di ogni genere. Io avevo appreso qualche nozione di contabilità e così fui immediatamente scaraventata alla sua scrivania e mi fu comunicato che da quel momento tutto ciò che riguardava l’aspetto contabile dello studio sarebbe stata una mia responsabilità. La manager del mio ufficio mi fu molto d’aiuto in quel periodo: trascorreva molto tempo con me assicurandosi sempre che io sapessi cosa stavo facendo. In ogni caso lei aveva il suo lavoro da portare a termine ed era sempre più pressata dal numero crescente di responsabilità che la dottoressa caricava sulle sue spalle. Non passo molto tempo che la dottoressa le inviò un preavviso di licenziamento di due settimane. Fui molto triste nel vederla andare via e non solo perché non conoscevo ancora abbastanza bene il mio lavoro da poterlo svolgere correttamente in solitudine, ma anche perché mi piaceva lavorare con lei e la simpatia era reciproca. Una volta che lei se ne andò, io fui da sola. Passai le settimane successive riuscendo a mala pena a rimanere a galla. Mi concentrai sulla contabilità ma c’erano sempre degli incendi da spegnere in ufficio per via delle ragazze che lavoravano con me. Sembrava come se avessero sempre bisogno del mio aiuto, cosa che mi lasciava pochissimo tempo a disposizione per chiudere le fatture entro la giornata. Naturalmente il lavoro cominciò ad accumularsi e così la dottoressa per un paio di settimane chiamò una specialista per farmi dare una mano ma senza la giusta formazione lei si trovò spaesata tanto quanto me. Fu in questo momento che i problemi veri cominciarono. Un giorno dopo aver completato le buste paga, infilai tutti i moduli compilati in una busta di carta destinata al direttore amministrativo e finanziario, il quale era anche il marito del dottore. Lui venne a prendersela quando io non c’ero e mi chiamo, tardi, quello stesso pomeriggio. Mi disse che la prossima volta che avessi sprecato una busta di carta per le buste paga avrebbe sottratto cinque centesimi dal mio compenso per coprire le spese. Riuscivo a stento a credere alle mie orecchie. Speravo che questa sarebbe stata la fine dei miei problemi ma purtroppo non fui così fortunata. Con costanza giornaliera venivo denigrata. Mi veniva detto in continuazione di lasciare alcune cose in sospeso e di concentrarmi in altre mansioni per poi essere sgridata per non aver portato a termine il precedente lavoro. Cominciai a lavorare per più ore ma venni ripresa per aver lavorato fuori dall’orario prestabilito. Il nostro ufficio era stato ridotto di due componenti e ora ci si aspettava che io facessi non solo il mio lavoro ma anche il loro”.
Libertà
“Ogni mattina andavo a lavoro accompagnata da una sensazione di fallimento che mi attanagliava la bocca dello stomaco. Non mi chiedevo più: -Chissà se oggi verrò sgridata?- ma –Chissà per cosa verrò sgridata oggi?-. Un giorno andai a lavoro proprio come tutte le altre mattine, se non che il giorno precedente ero stata informata del fatto che mancavano alcuni fogli dalla cartella clinica di un paziente. Le ragazze non erano state in grado di trovarli nel computer e così ero giunta alla conclusione che dovevano essere nella memory stick personale di un’altra praticante. Non avevo modo di recuperare le carte perché era da un po’ di tempo che quella praticante si era messa in malattia. Sapevo che la dottoressa era arrabbiata perché non aveva trovato quei documenti nella cartella del paziente ma dal momento che quel giorno aveva l’agenda piena, non ebbe il tempo per venire a parlarmi della mia ‘negligenza‘ fino a dopo pranzo. A quel punto sapevo che avrebbe fatto ciò che era solita fare in simili occasioni: mi avrebbe chiamato a cospetto del paziente e mi avrebbe sminuito per non essere stata in grado di inserire correttamente tutti i documenti nella sua cartella clinica. A qul tempo conoscevo ormai questa routine a memoria. Sapevo che non avrebbe ascoltato se le avessi detto che i documenti che cercava si trovavano sulla memory stick di un’altra praticante. Io avrei dovuto essere in grado di recuperarli, indipendentemente da dove si trovavano. Qual giorno quando andai a pranzo chiamai mio marito e gli raccontai cosa stava succedendo e cosa mi aspettavo che sarebbe successo dopo, nel pomeriggio. -Vattene e basta– mi disse lui. -Non devi avere a che fare con queste cose. Esci e non tornare più indietro-. Presi in considerazione quanto mi stava dicendo ma tornai comunque a lavoro. Stavo seduta alla mia scrivania da circa quindici minuti quando il direttore amministrativo mi chiamò al telefono. Mi chiese chiarimenti a proposito del precedente stipendio del manager dell’ufficio e mi accusò di aver fatto degli errori nonostante egli avesse controllato le buste paga appena due settimane prima. Disse che era sul punto di esplodere con me. Era arrabbiato. Bene, lo ero anche io. Cominciai a impacchettare le mie cose raccogliendo tutto ci che credevo appartenesse a me e attraversai la porta. Misi tutto nella mia auto e andai alla banca dall’altra parte della strada per restituire il mio permesso per il parcheggio. Non appena lasciai la banca, dovetti costringermi a camminare fino alla mia macchina. Tremavo tutta. Non riuscivo a credere che lo stavo veramente facendo. Stavo mollando il mio lavoro. Per il mio bene”.
Tre buone ragioni per lasciare un lavoro
“Avevo molte buone ragioni per andarmene quel giorno ma ne vorrei sottolindare soltanto tre per voi in questa sede”.
Ragione 1: l’abuso
“Se si abusa in qualunque modo di voi sul posto di lavoro, non ci sono assolutamente scusanti. Anche se la persona che abusa di voi è il vostro datore di lavoro o ha qualunque altisonante titolo, non ha alcun permesso di trattarvi male. Quando si abuserà di voi sul posto di lavoro, vedrete che i verrà chiesto di fare sempre più cose in sempre meno tempo, verrete sgridati per cose che non dipendono da voi o accusati per problemi che dipendono in buona parte proprio dal vostro datore di lavoro. Questo non è assolutamente il modo di vivere la vostra vita e non esiste lavoro sul pianeta terra che valga la pena di sopportare un abuso”.
Ragione 2: siete oberati di lavoro
“Anche se credete di essere efficienti al cento per cento e anche se credete di essere in grado di gestire più fronti contemporaneamente, alcune volte vi capiterà comunque di ritrovarvi oberati di lavoro che non potrete smaltire senza un aiuto. Le ricerche hanno dimostrato che cercare di fare troppe cose insieme è estremamente dannoso per la salute. Nel mio caso specifico , ero stata lasciata da sola a svolgere il lavoro di un intero ufficio, potendo contare solo sull’aiuto di una receptionist. E comunque anche lei aveva il suo lavoro da fare e non potevo seccarla in continuazione con le mie richieste d’aiuto. Ero veramente oberata dalla mole di lavoro oltre ad essere, prevedibilmente, esausta”.
Ragione 3: siete certi che sta accadendo qualcosa di illegale
“Anche se non mi sono trovata di fronte a delle vere e proprie illegalità durante il tempo in cui ho lavorato nello studio, ci sono state delle questioni portate alla mia attenzione da parte dell’esperta di contabilità di cui ho parlato prima, durante il periodo in cui è rimasta in ufficio. Cominciai a chiedermi se c’erano delle questioni legali per le quali valesse la pena di battersi, ma me ne andai prima di avere l’opportunità di appurare la faccenda. Dopo che me ne sono andata, la dottoressa ha impiegato circa due mesi per darmi la liquidazione, cosa che è ampiamente illegale. Lei non era preoccupata di come avrei fatto a sfamare la mia famiglia. Se siete certi che nel posto in cui lavorate stia avvenendo qualcosa di illegale, fatevi sotto subito. Dipendentemente dal livello del vostro coinvolgimento, è possibile che veniate implicato e questo potrebbe rovinare la vostra vita”.
Le mie conclusioni
“Quando arrivai a casa quel giorno, mi presi un po’ di tempo per rilassarmi e pensare a quello che avevo appena fatto. Avevo una leggera sensazione di panico dentro di me, potete scommetterci: sapevo di aver fatto la cosa giusta ma non ero sicura del modo in cui saremmo sopravvissuti alla mia avventata decisione. Giunsi alla conclusione che nessun lavoro valeva la mia salute. Avrei trovato un modo differente di guadagnare o un modo per vivere senza soldi. Se vi trovate in una brutta situazione in ambito lavorativo, trovate il coraggio per cambiare. Il che potrebbe anche significare uscire dal vostro ufficio nel bel mezzo di una giornata lavorativa o dare le vostre dimissioni. Non importa quello che dovete fare per andarvene, fatelo. Ne vale la pena, posso giurarvelo. Se vi state chiedendo se lo rifarei in caso di necessità, beh, potete scommetterci”.
E voi, amici, cosa fareste?
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