Hospitality: una prerogativa tutta italiana?
E’ da tanto tempo, forse troppo, che desidero scrivere questo articolo sul mondo dell’hospitality. Vorrei premettere che la mia riflessione parte dall’osservazione della realtà seguita dalla analisi dei fatti, una constatazione con qualche nota personale.
Il mondo dell’Hospitality
Come saprai dopo aver letto il mio articolo “Trasferirsi in Australia: per chi non ha un mestiere” e “Le mirabolanti avventure di una commessa negata in Australia“, non ho alcuna esperienza nel settore (se si fa eccezione a quella acquisita qui per un breve periodo), né nutro per il settore una particolare simpatia.
Tuttavia il settore dell’hospitality sembra accogliere la maggior parte dei ragazzi che arrivano in Australia e si fiondano alla ricerca di un primo lavoro. Le probabilità di trovare lavoro nelle prime settimane nel settore della ristorazione (questo significa hospitality in italiano) sono davvero molto alte, se si paragona la stessa ricerca nel settore delle constructions, del retail o in altri settori.
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Un esercito di camerieri, lavapiatti, aiuto cuochi, chef, pizzaioli, runner si fa in quattro per dimostrare le sue abilità per quanto riguarda prontezza di riflessi, velocità di apprendimento e memorizzazione, sperando che il temuto trial di due o tre ore che gli è stato concesso dia seguito all’assegnazione del posto di lavoro.
Ma esiste davvero soltanto l’hospitality come spiaggia su cui approdare per un lavoro sicuro? La risposta è naturalmente no, anche se è innegabile che i lavori in questo settore siano di facile e veloce reperimento se confrontati con tutti gli altri.
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Un’altra curiosità sembra essere il fatto che un largo numero di italiani sembra quasi “naturalmente” destinato alla ristorazione. Come se non ci fosse alternativa, o altra via d’uscita.
Spesso ascolto le storie di ragazzi e ragazzi che hanno studiato per anni oppure hanno una professione e si piegano alla volontà dell’hospitality perché non gli viene nemmeno in mente di fare qualcos’altro. Non posso negare che ci voglia flessibilità nel momento stesso in cui si mette piede in Australia, ma talvolta sembriamo quasi “rassegnati” e non proviamo nemmeno a guardarci intorno per fare qualcosa di diverso, oppure ci scoraggiamo dopo le prime difficoltà e i primi “no, grazie!”.
I vantaggi del settore della ristorazione
Non credo che siamo venuti qui con l’idea prioritaria di fare carriera nel nostro settore, ma per vivere un’esperienza, osservare una nuova realtà, per imparare diversi costumi, mode, tradizioni e lingue, ma anche per lavorare, studiare l’inglese, mettere da parte qualche risparmio.
Ecco allora che l’hospitality offre la possibilità di avere discreti guadagni (dipende molto dalla posizione ricoperta, se cameriere o chef, cambia radicalmente), a fronte di un lavoro dinamico, sicuramente stressante, ma a tratti anche piacevole, se si ha la fortuna di lavorare con un buon team in un ambiente accogliente e rilassato.
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Riflessioni sul settore
Eppure non riesco a togliermi dalla testa questi ragazzi brillanti, intelligenti, con titoli di studio di alto livello, professioni specializzate che, come si usa dire in gergo, “portano piatti”, un po’ per scelta un po’ per necessità, un po’ per rassegnazione. Elettricisti, infermieri, fisioterapisti, insegnanti, designer, storici dell’arte, artigiani, editori, ingegneri, educatori che asciugano bicchieri, lucidano posate e si stampano un sorriso in fronte ogni sera (sono la maggior parte a lavorare di sera) sperando che i clienti lascino mance abbondanti, le famose tips.
A lungo andare l’hospitality porta a sviluppare una sorta di corazza: impari a farti scivolare la maleducazione dei clienti come acqua fresca sul viso d’estate, impari il rispetto per il team, per l’autorità, impari a dare la priorità alle mansioni da eseguire, ad agire senza pensare troppo, a restare focalizzato e concentrato sul lavoro senza distrarti.
I lati negativi dell’hospitality
Ma l’hospitality ha anche dei lati negativi se ci si lavora troppo a lungo: si tende a diventare insofferenti fuori dal posto di lavoro dove ci si aspetta lo stesso trattamento che si dà ai clienti quando si lavora, si diventa un po’ più brutali nei commenti e nei giudizi, insomma si entra in un loop da cui è davvero difficile uscire perché si è sviluppata un’esperienza tale da essere diventati dei professionisti del mestiere, un mestiere non nostro, ma di cui ormai si è fatta l’abitudine.
Spesso mi sono detta: “Devo vincere le mie paure e imparare a portare questi benedetti tre piatti! Devo imparare a fare i caffè e ad aprire le bottiglie con il cavatappi!”, ma ho sempre avuto un gran timore di sbagliare, il terrore di sentirmi inadeguata, imbarazzata, stupida.
Imparare a essere flessibili con intelligenza
Forse si tratta davvero solo di imparare, di essere flessibili e più sicuri di se stessi, ma da qualunque parte mi giri vedo solo persone preparate, esperte e capaci nel settore dell’hospitality e mi chiedo chi abbia ancora tempo e voglia di insegnare a qualcuno il lavoro come si fa.
Forse semplicemente nutro un rifiuto interiore che mi fa prendere le distanze da questo mondo: nel frattempo da quando sono ritornata a Sydney ho cercato lavoro nel retail. Molti meno annunci di lavoro, più concorrenza e selezioni più rigide, ma intanto ho iniziato un lavoro come shop assistant in un negozietto vicino Central e devo dire che sono felicissima di essere tornata a fare il mio vecchio lavoro. Sistemare, riordinare e piegare i vestiti, taccheggiare i capi, stirarli, fare la vetrina, fare cassa, vendere e assistere il cliente sono azioni che appartengono al mio background lavorativo e mi sento perfettamente a mio agio nel compierle, mi sento sicura e sebbene non conosca ancora molte informazioni (sto studiando), sono abbastanza tranquilla.
Conclusione
Il mio consiglio, in conclusione, è di non perdere mai il focus dei propri obiettivi, di continuare a lavorare in hospitality (o nel retail come nel mio caso), con la consapevolezza che non è per sempre, vederlo come mezzo per un arricchimento personale e un bagaglio professionale che potrebbe esserci sempre utile nella vita, senza mai e poi mai dimenticare che essere italiano in Australia non significa essere destinati all’hospitality, ma distinguersi per professionalità, dedizione ed entusiasmo di cui solo noi siamo capaci, in qualsiasi lavoro andremo a fare!
Oh mio Dio.
Faccio lurking su PortaleAustralia da quando era una semplice community ed il blog non c’era ancora.
Sempre con l’Australia in testa, sempre con una meta ben precisa la quale, appunto, prevede un passaggio momentaneo presso le rive dell’hospitality.
Ho fatto un corso da Pizzaiolo: non alla cieca, non perché va di moda; semplicemente, perché, tra i lavori manuali, credo sia quello che mi abbia sempre più affascinato.
Inoltre, all’interno della rivoluzione alimentare in cui ci troviamo, credo che la pizza possa dire tanto.
Ad ogni modo, ero appena entrato sul blog con l’intenzione di registrarmi (…finalmente!) e di aprire un thread di aiuto, dalle note non esattamente positive.
Mi accingo a farlo, dunque!
Comunque, articolo salvato su Pocket istantaneamente.
Io non credo nelle coincidenze: il fatto che tu, Rachele, abbia deciso di pubblicare questo articolo e che io, proprio in questo particolare giorno, lo abbia letto, beh: ne è la prova del nove.
Hai espresso in modo del tutto esatto parte del mio pensiero.
Le conlusioni, poi, sono ira tra la folla:
“Il mio consiglio, in conclusione, è di non perdere mai il focus dei propri obiettivi, di continuare a lavorare in hospitality (o nel retail come nel mio caso), con la consapevolezza che non è per sempre, vederlo come mezzo per un arricchimento personale e un bagaglio professionale che potrebbe esserci sempre utile nella vita, senza mai e poi mai dimenticare che essere italiano in Australia non significa essere destinati all’hospitality, ma distinguersi per professionalità, dedizione ed entusiasmo di cui solo noi siamo capaci, in qualsiasi lavoro andremo a fare! ”
Queste parole, le rileggerò di tanto in tanto.
Grazie!